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La Teoria della Carruba (con brevi cenni a come non ho imparato a cucinare) di Antonietta Di Vito

In questi giorni ho letto un libro che ho amato molto e con piacere condivido con voi le mie impressioni “a caldo”. Da sempre le radici si intrecciano e, in fondo, a volte è bello guardarle aggrovigliarsi senza capire bene a chi appartengono. Così, quando mi capita un libro che capace di proiettarmi in tempi, luoghi e racconti che mi fanno rivivere immagini appartenute alla storia della mia famiglia, incomincio a seguirne le pagine immaginando che parlino anche di me o cercando di seguire lo sviluppo delle storie altrui in attesa che si intreccino con le mie. “La Teoria della Carruba (con brevi cenni a come non ho imparato a cucinare)” è il libro, parzialmente autobiografico, scritto da Antonietta Di Vito, autrice ed etno-antropologa (Edito da Aracne / La bussola) che mi ha fatto tornare alla mente le stesse sensazioni che provavo quando i miei genitori, zii e nonni condividevano con me ricordi delle loro vite e dei luoghi nei quali sono cresciuti. Mi scuserete quindi se, come in una pagina di un vero e proprio diario, io non riesca a raccontarvi del libro senza condividere con voi alcuni dei flash personali rivissuti durante la lettura.

Un libro che racconta le radici dell’autrice, ma che si intrecciano con la storia di tanti di noi

Come tanti, sono una “romana di Roma” le cui radici si espandono ben oltre l’ombra del “Cupolone”, ma ho preso consapevolezza di ciò solo in età adulta. 

Quando ero piccola, infatti, sentivo i racconti dei miei compagni che, per le vacanze estive, tornavano sempre “al paese”. Questo tipo di vacanze per me era sconosciuto perché, assieme ai miei genitori, ogni estate visitavo una località diversa. 

Solo con l’età della consapevolezza ho iniziato a percorrere le tracce del mio passato “scendendo”, lungo la penisola, verso la Puglia e, in particolare, nella Valle d’Itria che è il luogo al quale sento di appartenere. Che poi quando mi chiedono chi sia originario di lì, devo scavare fino all’800 per dare una risposta. Il mio bisnonno, infatti, è nato a Locorotondo anche se, come spesso avveniva, ha dovuto affrontare l’esperienza dell’emigrazione tant’è che tutti i suoi figli, tra cui mio nonno, avevano passaporto argentino. Mio padre, invece, è venuto al mondo sul Montefeltro per poi fare “la spola” tra Novafeltria e Brindisi. Mia madre, invece, è per metà romana e metà umbra ma confesso che è stata la Puglia ad aver avuto su di me negli anni un richiamo simile a quello delle sirene per i marinai.

Così è bastato il titolo “La Teoria della Carruba” a farmi ricordare che ogni volta che incontriamo l’albero di questo frutto mio padre si attarda a raccoglierne qualche esemplare e quando, lo scorso autunno, mi trovavo a Ventotene non ho potuto fare a meno di acquistatarne due sacchetti (insieme a lenticchie, cicerchie e “noccioline americane” tanto era stato lo stupore nel vedere quanto si possa coltivare in una isola così piccola).

Così, mentre una sera pensavo tutto ciò, ecco un messaggio dalle pagine del libro che sembrava essere rivolto proprio (e non solo) a me…

<<(…) La soluzione è che ciascuno scriva e racconti la propria storia personale, disseminando di tracce presente e passato e futuro in cerca di corrispondenze lontane?>>

Di piatti spaiati e di tracce di corrispondenze lontane nelle storie altrui

Il libro è un insieme poetico di racconti che partono dalla fanciullezza dell’autrice in Molise e che crescono negli anni con lei, raccontando le mutazioni sociali del Paese fatte di piccoli-grandi avvenimenti come l’arrivo della televisione a colori, l’abbandono delle fontane pubbliche e gli eventi familiari e collettivi che, man mano, venivano a mancare anche a causa della atomizzazione delle famiglie che, a poco a poco, diventavano sempre meno comunità. 

Venne quindi la pandemia che ha portato molte persone a riaprire le seconde case “al paese” ormai chiuse da anni come quei cassetti polverosi ma dai quali, una volta  aperti, iniziano ad affiorare ricordi e testimonianze di un tempo che ci apparteneva (anche se l’avevamo dimenticato).

Nel libro di Antonietta Di Vito non c’è nostalgia semmai la voglia di testimoniare che quelle sensazioni non sono andate perdute, ma, anzi, sono custodite dalle pagine di un libro che dovrebbe essere letto già in età adolescenziale per far prendere coscienza a molti giovani delle radici che circondano il loro quotidiano e che un giorno, forse, sentiranno la necessità di scoprire per apprezzare di più la strada che intendono percorrere. 

Io, dopo aver chiuso ieri le ultime pagine, ho portato il volume a mia madre, per poterne parlare con lei e magari pensare di ripercorrere stavolta le radici umbre che ancora hanno tanto da donarmi.

 

Letizia Palmisano Giornalista Ambientale

La sostenibilità non è solamente nel saper fare, ma anche nel far sapere. Letizia Ecoblogger e giornalista ambientale